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Nelle Ande centrali, la mia ballata continua a consegnarsi di bocca in bocca, tra i comuneros peruviani e i loro figli. Viene trasportata dal vento che corre le pampas, sgocciolata dal silenzio fangoso del mezzogiorno, nascosta nei sacchi di juta e nei riccioli di lana delle pecore, sprigionata dai fuochi fatui nei cimiteri come una diceria popolare che si raccontano anche i morti.
È una ballata dalle scarpe bucate che riempie le piazze calve, e illumina d’acquavite gli occhi, e colora le facce degli indios di rosso, e di verde, e di rame, e inargenta la cima degli eucalipti e il sorriso di vecchi che non hanno più denti da perdere, solo i fiumi profondi delle loro rughe. Fa venire il mal d’aria, anche, e muove il petrolio cattivo della rabbia.
Canta la storia di un uomo maltrattato dall’altitudine e dalle multinazionali, con il viso smaltato dal rancore, la cui risata sembrava un segreto rubato ai gufi: la mia storia, la storia di Héctor Chacón, detto il Nittalope, perché vedevo meglio di notte che di giorno e sapevo che l’oppressione è come l’orma fosforescente di una lucertola nel buio. Una storia di prefetture, guardie civili, carceri, giudici, fionde e sassi. La guerra silenziosa del mio popolo, gente invisibile come le sue proteste, combattuta quando i contadini parlavano ancora ai cavalli, e restavano insonni per duecentocinquantasette anni, e morivano su un ponte, con le armi in mano, ma poi resuscitavano sotto forma di puma o di lucciola. Per non smettere la loro resistenza all’avanzata dei gringos che volevano recintare il mondo e rubarci la terra, e i nomi, i ricordi, il tempo.



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