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La guerra è bbutta, un insulto che non si placa, un’epilessia senza redenzione. Io nacqui dalla violenza di un tedesco su una vedova, un mascolillo dagli occhi smisurati, che riconoscevano lo splendore interno che hanno tutte le cose. Anche i fili della pioggia mi sembravano coriandoli e stelle filanti. Sapevo parlare ai cani e l’ultimo che ebbi lo si dovette sopprimere perché non permise a nessuno di avvicinarsi al mio corpicino inerme. Il mio unico giocattolo fu una minuscola pallina giallorossa che chiamavo Roma. Ma tanto bastava. Avevo una città da imparare, anche se sinistrata: San Lorenzo, Pietralata, Testaccio… C’era il sogno della pace. La sua attesa.
Ma la guerra può uccidere anche dopo che è finita, come una mina dimenticata nell’animo degli uomini e dei bambini. Il mio amato fratellastro Ninnuzzu-Assodicuori, invulnerabile in battaglia, morì a ventun anni in un incidente stradale; l’anarchico Davide fu ucciso dalla droga e a me, di colpo, si spense ogni ostinazione alla gioia.
Ero nato in anticipo di settimane e tutta la mia infanzia si compì sotto il segno della precocità. In poco più di sette mesi mi devastò il Grande Male, sotto un cielo senza ttelle.



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