200 personaggi in cerca d



Il traffico dell’autostrada scorre incessante sulla mia testa. Fa ondeggiare l’erba incolta di questa scarpata nella quale sono caduto. Un labirinto senza uscita, recintato da due terrapieni di cemento alti dieci metri e da una rete metallica. Un’isola di ortiche, carcasse di automobili, spine e cassoni di calcestruzzo; una discarica abusiva sotto un cavalcavia fra tre autostrade. Ci sono precipitato alle tre di pomeriggio del 22 aprile del 1973. Dallo svincolo di West Way, Londra centro. Alla mia Jaguar è scoppiata una gomma a 120 chilometri orari e di colpo la mia vita è deragliata. Avevo trentacinque anni, una moglie, un’amante e uno studio di architetto ben avviato.
Ora vivo sotto un foglio di lamiera, in uno scantinato che una volta fu un cinema, vicino a un rifugio antiaereo. Sono ferito alla gamba destra e ancora sporco di terriccio, olio e sangue. Ho lividi ed escoriazioni in tutto il corpo e mi muovo con una stampella di metallo come un barbone storpio e infangato. Nessuno, dall’alto, farà caso allo smoking stracciato che indosso, al mio andamento ubriaco, alle richieste d’aiuto che scrivo sul cemento e che la pioggia cancella. Per un poco, ho condiviso questa topaia con una donna rossa di capelli e dai jeans stinti e con la «grazia sfigurata di un acrobata», un vecchio minorato con un costume da circo anteguerra e i piedi piccoli. Due vagabondi con altre incomunicabili cicatrici. Giusto il tempo per ristabilire con loro i rapporti di forza di qualsiasi società umana e di restare di nuovo tragicamente solo.
Alla luce di una lampada a kerosene che si sta spegnendo, bevo un ultimo sorso di Borgogna e mi chiedo se su un’isola ci abitavo già prima di finirci o se sia io stesso l’isola nella quale mi sono perduto. Per il momento ci dormirò sopra. Domani progetterò la fuga.



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