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Ebbi in sorte di passare immune tra le cose, senza toccarle. Per anni attesi la vita come si aspetta una donna, con solitaria superbia, sicuro che tutto – occasioni, fortune, accidenti – fosse ancora di là da venire. Mi dedicai soltanto ai muschi, alle cavallette e ai minerali, come a un mondo parallelo da cui gli uomini erano esclusi.
La collina era il mio modo di vivere, di sfumare in una curvilinea gli spigoli dell’esistenza, e anestetizzare il dolore e la ferocia. Pure continuavo a sentirmi sgraziato nel mio letargo. Incompleto. Con la guerra m’illusi di guarire, d’essere catapultato nello scompiglio di una speranza che sciogliesse il rancore e la durezza accumulate da tanta lucidità.
In un’osteria, mentre Torino franava, incontrai un vecchio amore e un figlio che non sapevo d’avere e che portava il mio nome. Ma non seppi fermarli né seguirli nella calamità e nel coraggio. Continuai a fuggire, solo col mio cane. Mi nascosi in un convento. Alla fine, mi ritrovai a camminare tra parole pietrose per un bosco di morti.



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