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Anche il talento può tramutarsi in sventura se si fa dell’arte il solo metro della propria unicità. Forse non c’è più impietosa misura dell’imbarazzo di essere come si è. Incontrare un compagno di corso più dotato o addirittura imbattersi nella genialità, quando ogni speranza è ancora intatta, è una minaccia capitale. Poche note e tutto è perduto, annientato.
Per me fu sufficiente l’attacco delle Variazioni Goldberg eseguito dal giovane Glenn Gould, nell’anno in cui studiavamo insieme da Horowitz, a Salisburgo. Era il 1953. Da allora non mi percepii che come un pianoforte atrocemente scordato.
Misi all’asta il mio Bösendorfer, divenni un camminatore di strade asfaltate, come lo stesso Gould mi definì: un feticista di scarpe, uno che muore di autocommiserazione, un autore di aforismi, un uomo da vicolo cieco, un offeso dalla natura, un visitatore di cronicari e di cimiteri.
Per vent’anni confinai nella mia depressione e nella mia insopportabile loquacità anche mia sorella; frequentai le scienze dello spirito: Kant, Schopenhauer, Spinoza; riempii quaderni della mia inane calligrafia. Ma non mi liberai mai della sensazione d’emulare sempre qualcun altro, di concertare una sonata di smacchi, debolezze e mutilazioni. Fino a scegliere di morire alla stessa età in cui era morto Gould, a cento passi dalla sorella che mi aveva abbandonato, nel virtuosismo disperato della mia distruzione.



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