200 personaggi in cerca d



Ascoltare è il pericolo maggiore. Venire a conoscenza. Essere messi al corrente. Non c’è riparo dall’«incomprensibile sussurro che ci persuade», dalla mano sulla spalla, dalla complicità della colpa. Perché chi racconta cerca di rifugiarsi in un cuore blanco; chi riceve la confessione perde per sempre la sua innocenza.
A volte, nel mio lavoro di interprete traduco parole che non sono ancora state pronunciate. Sono abituato ad anticiparne il senso, a stare all’erta, a tendere l’orecchio. So che il silenzio suona allo stesso modo in tutte le lingue che conosco.
Ho tradotto voci d’ogni tipo: ossidate, rauche, voci di ministri, di capi di stato. Ma la mia colpa è stata prestare attenzione a una conversazione privata in un albergo all’Avana. Io avevo trentaquattro anni e mi ero appena sposato di un matrimonio tardivo e imprevisto. Nella stanza accanto alla mia udii l’istigazione di un’amante al delitto. Fu come mettere gli occhiali alla memoria, che si stanca quanto la vista, e risalire lungo la schiena nera del tempo. Su su lungo la bocca carnosa e femminea di mio padre, così simile alla mia. Fin dentro al suo segreto: a un delitto che precedette la mia nascita.
La sua era l’unica voce che non avrei dovuto ascoltare. Perché non è l’accadere delle cose che fa ruotare gli anni, ma il nominarle. Raccontando si acquistano meriti e tutto torna a essere presente: i fatti occultati e le loro conseguenze. Nulla succede per intero finché non è stato detto o non lo si è saputo.



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