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Quando passo nei cortili, la mia sottana di prete si solleva al vento come l’ala frusciante di una farfalla. Sono il cappellano della Chiesa dei Servi di Maria e tutte le zitelle del quartiere mi indirizzano sguardi perduti. Alto, sportivo, le gambe filanti da camoscio, la voce incisiva che predica dal pulpito, a trentasei anni so pilotare gli aeroplani e spesso mi si vede in giro su una Balilla amaranto avuta in dono da una spasimante, insieme a delle pillole per combattere la debolezza sessuale. Il pomeriggio mi alleno alla palestra del ricreatorio e al cinema ci vado quasi ogni giorno. Il mio saluto romano è fermo e teso e i modi littori più che evangelici. La guerra di Spagna era stata per me una fucina di Fede e Ardimento, come ho scritto in un libro. Fede e Ardimento chiamai anche l’organizzazione femminile che avevo fondato in attesa che il Duce transitasse da queste parti: una sahariana sulla gonna a pieghe per divisa e una croce e un fascio di latta per distintivo.
Con la mia biancheria di lino e le calze di seta, ero apparso come un’orchidea tra i vicoli di Vicenza, abitati da ladri gentili, prostitute luminose e ragazzi ossuti e maledetti, con la testa rapata e gli occhi giallastri. Un’orchidea che odorava di tutti gli odori del mondo, di sapone buono e sambuco, e cuoio di capretto, e brillantina Arys. L’unico odore che non avevo addosso era quello di prete. Neppure un sentorino di incenso, o di selvatico, o di cera rappresi sulla cotta e sulla stola. Ma la mia fioritura durò poco. A tempo di fox, il fascismo precipitò verso la fine come una malattia mortale simile alla tubercolosi che mi costrinse a un ricovero senza speranze al sanatorio di Arco, sul lago di Garda. Lasciai dietro di me l’unica donna che avessi amato, la rigogliosa Fedora, incinta e disperata. In nomine patris et filii et spiritus sancti.



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