200 personaggi in cerca d



Sono io l’intruso, il mostro, il massacratore di una tranquilla famiglia del Kansas: l’uomo-bambino, il quasi nanerottolo, storpio a una gamba dopo un incidente in moto e con un alone triste di animale bandito, di creatura ferita, disse un avvocato, gli occhi a mollo nella solitudine.
Mia madre, una cavallerizza indiana Cherokee, se ne andò di casa quando avevo sei anni, alcolizzata. Mio padre, un cowboy irlandese dai capelli color zenzero e le mani violente, non venne a trovarmi neppure il giorno che mi impiccarono. Mio fratello si sparò dopo il suicidio della moglie e mia sorella cadde ubriaca dalla finestra di un albergo.
Io, Perry Smith, abitavo questo giardino bianco di nebbia di mare, popolato di fantasmi. In un taccuino segnavo le parole belle o utili che avrei voluto saper usare e ammiravo la gente con uno scopo e la volontà di perseguirlo.
Mi portavo sempre dietro una scatola di libri e di ricordi e mi piaceva suonare la chitarra, finché non mi rubarono anche quella. Da allora trovai riposante soltanto buttare i miei panni sporchi in una lavatrice automatica e guardare la roba che diventava pulita.
Nel mio delitto, non era la scaltra freddezza assassina che stupiva, ma «una certa contorta tenerezza» verso le vittime, come scrisse qualcuno, il dettaglio che non torna, il tassello irregolare. Chi mi chiedeva il motivo di una strage così insensata, ne aveva per risposta una protesta silenziosa, tutta la mia muta rabbia contro il mondo.



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