200 personaggi in cerca d



Ci sono molti modi di analizzare la propria vita, al microscopio. Per me, Elizabeth, o Liz, o Lizzie, come mi chiamano i miei amici dell’African National Congress, l’osservazione è un’abitudine che contrassi all’Istituto di ricerca, per lavoro. Quando mi comunicarono il suicidio del mio ex marito, fui obbligata ad addentrarmi «nel territorio della vita adulta in cui si può scegliere di morire». La tenia da indagare era quella di un amore che mi aveva messa incinta a diciottanni, nelle pianure del veld, in macchina, e adesso era un uomo annegato nel porto di Città del Capo. Era la natura stessa dell’amore l’oggetto del mio studio,
o forse l’amore era solo la lente per scomporre una generazione incapace di sabotare fino in fondo le sue radici bianche: l’impronta dell’ambiente che mi aveva formata, il desiderio di esibire, di ottenere il riconoscimento altrui, l’egoismo, la smania di riuscire… Riscontravo tracce di colesterolo e bilharzia dovunque e, cellula dopo cellula, misi a fuoco la sclerosi morale del mio mondo tardoborghese, con tutte le sue cerimonie obsolete e intollerabili, le assicurazioni sul futuro, i quartieri di buone maniere e di giocattoli.
Sono figlia di un bottegaio di provincia e mi hanno allevata a vivere tra donne, ma tutto quello che ho imparato nella mia famiglia si è dimostrato tragicamente inutile.
Ora sono madre, in una latitudine senza tempo, e il mio occhio è lucido e fermo. Ho una storia con un avvocato, che è qualcosa di più di una relazione sessuale. Ma ho ancora voglia di baci non convenzionali, e di scoprire quale città si estende oltre la città, e di vincere l’alternanza dolorosa di vita e di paura. La mattina affondo il viso nei miei amati bucaneve come una farfalla pallida per cercare di capire che profumo può ancora avere la speranza.



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